I nostri ospiti si chiamano Shah, Sillah, Idris, Abraham. Sono Africani, Asiatici, hanno la pelle color ebano o i tratti caucasici. Sono cattolici, mussulmani, copti o testimoni di Geova. Quello che li accomuna è che non hanno scelto di partire, hanno dovuto farlo.
Hanno storie terribili alle spalle, difficili da raccontare ed ascoltare, storie che leggiamo ogni giorno nei loro silenzi, nelle loro assenze, nelle loro richieste o speranze. Shah è partito perché si è rifiutato di piazzare bombe sotto il manto stradale come gli avevano chiesto i Talebani.
Sillah non ci ha mai detto perché è partito, ma porta sul collo i segni della violenza: lunghe e profonde cicatrici. Non appena in televisione vede un’arma, o qualcosa che le somiglia, scappa in camera sua.
Idris non sa bene da quale paese provenga. Si ricorda solo che verso i sei anni si è ritrovato in un campo profughi in Kenya e da lì ha impiegato anni viaggiando per l’Africa per raggiungere l’Italia. Abraham è Copto e arriva da un paese dove gli stessi mussulmani dissidenti sono vessati e torturati, figuriamoci i Cristiani. Sono stati picchiati in prigione o in container sulle coste libiche finché non hanno trovato tutti soldi necessari per poter partire.
Quello che accomuna tutte le loro storie è che non hanno scelto di partire: hanno dovuto farlo. Hanno dovuto abbandonare il loro paese, la famiglia, i figli, la loro comunità.
Hanno una disperata voglia di rendersi utili, di lavorare, studiare, guadagnare qualcosa che gli permetta di rendersi indipendenti e di aiutare la propria famiglia.
Vorrebbero raggiungere i loro parenti a Berlino o Stoccolma ma non possono, a causa delle leggi europee. Hanno negli occhi la rabbia, la speranza, la sofferenza, la fatica. La gratitudine.
E soprattutto hanno un disperato bisogno di ritornare ad essere artefici della propria vita: ci piace immaginare di camminare al loro fianco per un piccolo pezzo di strada in questo percorso di autonomia ed emancipazione.